Henri Cartier-Bresson
"Lo sguardo del Secolo"
Recensione a Cura di Elena Arzani
“...ogni volta che premo il pulsante dello scatto, è come se conservassi ciò che sta per sparire.” – Henri Cartier-BressonHenri Cartier-Bresson
Finissage: Roma, Museo dell’Ara Pacis
dal 26 settembre 2014 - 25 gennaio 2015
Si
chiude oggi al Museo dell’Ara Pacis una retrospettiva dai grandi
numeri, proveniente dal Centre Pompidou di Parigi e dedicata
all’inestimabile opera di Henri-Cartier Bresson: 16.000 i visitatori che
hanno percorso le sale nel periodo di dicembre, con una media di circa
1000 persone al giorno; 500 le opere esposte, tra cui schizzi, filmati e
le fotografie originali dell’epoca stampate dallo stesso
Cartier-Bresson; 9 le sezioni che compongono il percorso proposto dalla
mostra, analizzando ciascuna un diverso periodo della vita e del lavoro
dell’artista ed infine 1 il grande catalogo edito da Contrasto, con
saggi di studiosi e testi inediti.
Queste strabilianti cifre non destano stupore, trovandoci di fronte all’opera di colui che è stato definito “lo sguardo del secolo”
e che, attraverso un costante lavoro della stessa durata, ha gettato le
fondamenta della moderna fotografia, ridisegnato il ruolo del fotografo
e diventando egli stesso simbolo e riferimento di quest’arte.
Lo
stile di Cartier-Bresson ha ispirato generazioni di fotografi ed ormai a
10 anni dalla sua scomparsa, resta indiscutibilmente la più grande
fonte di insegnamento –
“La macchina fotografica è per me un blocco di schizzi, lo strumento dell'intuito e della spontaneità. [...] Fotografare è trattenere il respiro quando le nostre facoltà convergono per captare la realtà fugace; a questo punto l'immagine catturata diviene una grande gioia fisica e intellettuale. Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere. (da Henri Cartier-Bresson, Contrasto, 2004)”
Nato
a Chanteloup nel 1908, da agiata famiglia, dimostra fin da bambino una
predisposizione spiccata per le Belle Arti. Quasi ventenne, affascinato
dal disegno, pittura e poesia, riesce con l’aiuto dello zio Louis a
frequentare l’atelier del pittore Jacques-Emile Blanche, dove dipinge
tele che evidenziano una chiara ispirazione all’impressionismo di Paul
Cézanne. Nel 1927 diventa allievo di André Lhote, artista e teorico del
cubismo, che gli svela i segreti dell’estetica del rigore formale e
visivo, nonché della prospettiva.
“Non riuscendo a rivelare il pittore che era in lui, Lhote modella l’inconscio del futuro fotografo. Cartier-Bresson forse non saprà contare, ma sa perfettamente dove cade il numero aureo: dentro di lui è inciso, piuttosto che scritto, quel famoso principio di armonia universale, chiave della concezione assoluta della bellezza.”(Pierre Assouline, Henri Cartier-Bresson. Biografia di uno sguardo, Milano, Photology, 2006)
In
questo stesso periodo, Henrì entra in contatto con gli ambienti del
surrealismo, grazie all’amico René Crevel ed ispirato dal lavoro di Max
Ernst, realizza alcuni collage. Siede in fondo al tavolo ed ascolta le
riunioni a cui prende parte Andrè Breton, è giovane e troppo timido per
esprimere la propria opinione. Più tardi, quando nel 1931 la passione
per la fotografia si accenderà finalmente in lui, le tematiche care al
surrealismo si manifesteranno in modo tangibile in tutta la sua opera,
al punto di divenire uno dei fotografi più autenticamente surrealisti
del suo periodo. Scrive di lui Jean Claire:
“Le sue fotografie, prima di essere la cattura della luce tramite grani d’argento, sono una metafora ottica, la dimostrazione che l’obiettivo fotografico in mano a un poeta può elevarsi sulle oscurità più profonde del reale.”
(Jean Claire, Introduzione a Henri Cartier-Bresson, Paris, Photopoche Nathan, 2002)
Nelle
prime sale della Mostra allestita all’Ara Pacis, è possibile ammirare
alcuni scatti famosi di Henrì Cartier-Bresson, che attingono al mondo
dell’immaginario surrealista, come: “Gli oggetti impacchettati”; “I corpi deformati”; “I sognatori ad occhi chiusi”,
ecc. Ma in ogni scatto, sarà possibile rintracciare elementi di quella
poetica del silenzio, in cui la figura umana diviene strumento
metaforico, pretesto del gioco d’ombra e luce che dà vita allo scatto,
esaltando le sue forme quasi ad astrarle per interpretare un ruolo non
unicamente narrativo, in uno scenario dai tratti pittorici spesso
riecheggianti i tratti fondamentali della Teoria della prospettiva di
Piero della Francesca, in cui il “momento decisivo” fissa
l’attimo per consegnarlo all’eterno. Roland Barthes, nel suo saggio
sulla fotografia “La camera chiara", scriverà più tardi: “Medium
bizzarro, nuova forma di allucinazione: falsa a livello della
percezione, vera a livello del tempo”. Dai surrealisti, Henrì
Cartier-Bresson non attinge solo l’influenza artistica, ma anche e
soprattutto le inclinazioni politiche tipiche del movimento: il
comunismo. In nome del suo impegno alla lotta contro il fascismo,
intensificatosi particolarmente dopo le rivolte del 1934 a Parigi, firma
diversi manifesti di “richiami alla lotta” e “unità d’azione”. Il suo
desiderio di raggiungere una folla più ampia, attraverso un linguaggio
immediato e scevro delle complessità dei circoli colti, lo porta ad
avvicinarsi al mondo della cinematografia, conosciuto grazie alla
collaborazione con Jean Renoir nel 1931. Durante uno dei diversi viaggi
in Messico e negli Stati Uniti compiuti nei successivi 2 anni (dopo i
quali decide di partecipare in modo attivo all’Associazione degli
artisti e scrittori rivoluzionari, iniziando a lavorare per la stampa
comunista), apprende il funzionamento della telecamera e si lascia
affiancare da alcuni documentaristi. Senza mai posare la fidata Leica,
affascinato dalla possibilità di creare una struttura narrativa per
mezzo della cinepresa, restituisce alla storia nella duplice anima di
scatto fotografico e filmato, alcuni istanti emblematici a cui assiste,
come ad esempio: la disinfestazione di alcuni prigionieri con spray ddt.
Cartier-Bresson decide di mettere le proprie competenze in ambito
fotografico al servizio dell’informazione e nel 1936 parte per la Spagna
inviato dal Paris-Soir per documentare la guerra civile. In
questi stessi anni, che si riveleranno essere tra i fondamentali della
sua esistenza, conosce David Seymour
e Robert Capa. Catturato nel 1940 dai tedeschi, dopo quasi tre anni di
prigionia e due tentate fughe, riesce a evadere dal campo e nel 1943
ritorna a Parigi dove fotografa la fine della guerra. Parte poi alla
volta della Germania per immortalare la liberazione di prigionieri e
deportati. Nel 1947 dopo la prima grande retrospettiva a lui dedicata
dal MOMA di New York, alla fine della guerra Mondiale fonda insieme a George Rodger e William Vandivert, David Seymour e Robert Capa. la famosa Agenzia Magnum.
Henrì
Cartier-Bresson a questo punto della vita, avrebbe potuto
tranquillamente dedicarsi all’attività di artista della fotografia, ma
in controtendenza sceglie invece di tornare sul campo e continuare il
duro lavoro di reportage viaggiando in tutto il mondo.
L’Agenzia
Magnum rappresenta la rivoluzione più grande nel campo dei diritti
d’autore e del ruolo del fotografo, che diversamente dalla consuetudine
fino allora in vigore, diviene proprietario a tutti gli effetti dei
propri scatti.
Di
questo periodo sono le immagini del suo lungo soggiorno in India, di
Gandhi e della filosofia buddista che decide di abbracciare. "
Più di tutto, io cerco un silenzio interiore. Cerco di tradurre la personalità e non una sua sola espressione". Henri Cartier-Bresson
Nel 1948 documenta i funerali del Mahatma:
“Segue il corteo funebre perduto in mezzo a due milioni di persone, assiste alla cremazione, e accompagna il treno che porta le ceneri nel luogo della loro immersione, nel Gange […]. Per quanto rifiuti l’idea di un reportage sull’assassinio, ne fa comunque uno alla sua maniera, dando la caccia all’ondata di shock sui volti e nei comportamenti della gente. Percorrendo questo Paese traumatizzato, abbozza il ritratto di un popolo colto nell’istante preciso di una delle più grandi tragedie della storia.” – Pierre Assouline, op. cit.
Henri
Cartier-Bresson è divenuto a tutti gli effetti un’icona del
fotogiornalismo e fino al 1970 la sua attività ai quattro angoli del
globo, sarà inarrestabile. La sua prima raccolta di fotografie,
pubblicata nel 1952 per l’editore Tériade, dal titolo: “Images à la
sauvette”, è corredata dalla copertina illustrata da Matisse. Henri
Cartier-Bresson è considerato il padre del fotogiornalismo e del
reportage e un maestro nella capacità di cogliere “il momento decisivo”
e di catturare l’elemento di irrealtà nella realtà; sarà il primo
reporter ad entrare in URSS dopo la morte di Stalin, “L’uomo e la
macchina” a Cuba e l’occhio di “Vive la France”.
“Il reportage è un’attività progressiva della testa, dell’occhio e del cuore per esprimere un problema, fissare un evento o una qualche impressione. […] Per me la fotografia è il riconoscimento simultaneo, in una frazione di secondo, del significato di un fatto da un lato e dell’organizzazione rigorosa delle forme, visivamente percepite, che esprimono questo fatto dall’altro.” – Henri Cartier-Bresson in “L’instant décisif”, Prefazione a Images à la sauvette, Paris, Verve, 1952
Nonostante
l’intensa attività di fotoreporter, Cartier-Bresson resta fedele al suo
amore per l’arte, per il ritratto ed un certo studio antropologico
dell’uomo durante tutti i suoi innumerevoli viaggi, creando progetti a
latere, non commissionati dalle testate giornalistiche, in cui è libero
di esprimere la sua analisi sociale e tematiche di natura psicologica.
“Sono visivo – diceva, tra l’altro, Cartier-Bresson - […]. Osservo,
osservo, osservo. È con gli occhi che capisco.”
Ormai
sessantenne, lentamente riporta l’attenzione verso la passione
alimentata in giovane età. La sua fama è talmente grande, da esser
diventato egli stesso simbolo e definizione della fotografia per
antonomasia, fatto che non raccoglie il suo pieno favore. Discostatosi
dall’attività della Magnum, in cui non ravvisa più gli iniziali principi
abbracciati nel 1947, si dedica al disegno, all’organizzazione di
mostre e del suo archivio d’immagini. Affascinante, a mio avviso, notare
come l’arte pittorica e fotografica si siano vicendevolmente
influenzate nel corso della sua vita, partendo da una pittura di stampo
impressionista e poi surrealista, che ha “allestito” gli scenari di
scatti d’intensa atmosfera e pathos, per poi giungere al capo opposto in
tarda età, in cui la gestualità marcata nel tratto degli schizzi,
esprime un segno degno dei grandi maestri contemporanei, forte e deciso,
mentre il “taglio” dell’immagine segue le regole dell’inquadratura
della macchina fotografica. Interessante inoltre il dettaglio dei suoi
autoritratti, nei quali la graffite sottolinea una marcata attenzione
verso lo sguardo, calcando in modo particolarmente vistoso ed a tratti
ossessivo il contorno degli occhi.
Henri
Cartier-Bresson, la cui vita si lega indissolubilmente all’opera
creativa, divenendo essa stessa mezzo di comprensione ed analisi degli
scatti, è stato non solo un’icona della fotografia, in quanto
professione ed arte, ma anche un messaggero, che attraverso il lavoro di
un secolo, ci ha educato alla cultura del nostro tempo, non permettendo
alle distanze fisico-temporali di celare nozioni importanti per la
cultura generale.
Cartier-Bresson
ha guardato il mondo dal punto di vista dei suoi abitanti, permettendo
agli stessi di comprendere il ruolo fondamentale che ogni singolo
individuo ha rivestito in vita, senza per questo tralasciare l’estetica e
la poetica del racconto, in grado di superare il muro del pianto per
elevare la storia e la dignità stessa dell’uomo.
La sua opera resta, a dieci anni ormai dalla morte, unica ed irripetibile.
Elena Arzani
. Art director di TuttoRock
. Inviata Speciale/Redattrice di Frattura Scomposta Contemporary Art Magazine
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